di Miriam Cesta, redazione
Le Indicazioni Geografiche italiane DOP e IGP stanno affrontando sul piano internazionale sfide cruciali, tra cui gli accordi di libero scambio come quello con il Mercosur, l’imposizione dei dazi americani, l’espansione verso mercati strategici come la Cina e le nuove strategie della Politica Agricola Comune. In un contesto così complesso per il futuro del Made in Italy agroalimentare la tutela dell’origine, la competitività e le strategie di marketing rappresentano elementi imprescindibili. A fare il punto su queste tematiche per Mangimi&Alimenti è Cesare Baldrighi, presidente di Origin Italia, l’associazione di riferimento per la tutela e la valorizzazione delle Indicazioni Geografiche agroalimentari italiane.
Presidente Baldrighi, i dazi americani rappresentano una minaccia concreta per l’export agroalimentare europeo, in particolare per i prodotti di maggiore qualità. Qual è l’impatto reale di queste barriere tariffarie sul settore DOP e IGP?
Bisogna partire da un fatto: i dazi hanno un impatto molto diverso a seconda del prodotto. Per esempio, il Pecorino Romano esporta negli Stati Uniti più del 50% della produzione, prima non pagava alcun dazio e ora si trova a dover affrontare un’imposta del 15%. Al contrario, Parmigiano Reggiano e Grana Padano avevano già una formula particolare e, sostanzialmente, quei dazi li pagavano già. Lo stesso vale per i prosciutti: prima non avevano dazi, ora sì. È evidente quindi che non si può fare un discorso generale: la situazione va analizzata prodotto per prodotto. In generale è chiaro che i dazi sono un ostacolo, ma possono diventare uno stimolo: il rischio di perdere quote di mercato ti costringe a riflettere su come compensare eventuali perdite aprendo ad altri mercati. Certo, non è semplice: dipende sempre dal peso che il mercato americano ha per quel prodotto e da quali alternative esistano. Ma, almeno in teoria, questo può portare a diversificare.
Ci sono, a suo parere, delle strategie che il settore dovrebbe prendere in considerazione?
La miglior difesa, come si dice, è l’attacco. In questo caso l'”attacco” consiste nel rafforzare la comunicazione, aumentare gli investimenti in marketing, consolidare le relazioni commerciali in quel Paese. Se un prodotto vede aumentare il proprio costo a causa dei dazi, può superare l’ostacolo solo investendo in promozione, consolidando i rapporti commerciali e valorizzando il posizionamento dei prodotti facendo leva sul valore intrinseco della qualità certificata: solo in questo modo si può essere in grado di superare l’ostacolo che viene imposto da un maggior costo derivante dal dazio.
Un’altra questione calda è l’accordo con il Mercosur. L’accordo promette l’apertura di nuovi mercati, ma allo stesso tempo emergono preoccupazioni riguardo la tutela dei prodotti italiani nei mercati sudamericani e l’importazione di prodotti soggetti a un percorso normativo meno rigoroso di quello nazionale. Come valuta complessivamente l’accordo per i prodotti italiani DOP e IGP?
Per le nostre DOP e IGP, in linea di principio, è un accordo favorevole. Si tratta di mercati che oggi, in termini di volumi e di valore, non sono particolarmente significativi, ma aprirli è positivo. Il discorso è diverso per le grandi commodities: cereali, carne, ortofrutta. In quei casi l’accordo rappresenta un rischio concreto, perché i paesi del Mercosur sono estremamente competitivi: hanno manodopera a basso costo, grandi superfici, tecnologie efficienti. Capisco quindi le preoccupazioni di una parte del nostro sistema agricolo.
Cosa si potrebbe migliorare secondo lei?
Ritengo fondamentale un principio cardine dell’Unione Europea: le regole sanitarie e di sicurezza alimentare che valgono per i produttori europei devono valere anche per chi importa. Se ai nostri produttori si vieta l’uso di certe sostanze chimiche, non è accettabile che siano presenti all’interno dei prodotti che arrivano da fuori. Se questo principio viene rispettato, l’accordo è sostenibile. Ma se si fanno eccezioni, allora è profondamente scorretto.
Il mercato orientale, in particolare la Cina, rappresenta un’area di grande potenziale per l’export italiano. Le recenti tensioni commerciali e l’introduzione di dazi specifici, come quelli sulle carni suine, hanno sollevato nuove preoccupazioni. Come valuta lo stato attuale delle relazioni commerciali con la Cina e con gli altri mercati orientali per i prodotti italiani?
Verso Oriente, e in particolare verso la Cina, ci troviamo di fronte a due barriere principali. La prima, e più importante, è culturale: le loro abitudini alimentari sono molto diverse dalle nostre. I nostri prodotti rappresentano una scelta particolare, non fanno parte del consumo quotidiano. Occorre quindi un lavoro significativo di educazione al consumo, spiegando come usare i nostri prodotti in cucina, i loro pregi e i benefici nutrizionali. La seconda barriera è di natura politico-economica. Paesi come la Cina adottano strategie economiche molto orientate alla protezione del proprio mercato. L’introduzione di dazi sulle carni suine, il cui consumo in Cina è molto alto, ad esempio, è legata al rafforzamento della produzione interna, scelta influenzata da equilibri geopolitici e da tensioni internazionali, come quelle attuali con gli Stati Uniti. Il Paese ha sviluppato allevamenti suini molto grandi raggiungendo una buona autosufficienza, e l’introduzione dei dazi serve a proteggere la produzione interna. Una dinamica che riguarda anche il settore lattiero-caseario.
Quali strategie ritiene siano necessarie per promuovere in questa parte del mondo i prodotti del Made in Italy?
In questo contesto l’UE dovrebbe certamente rafforzare gli accordi bilaterali con l’obiettivo di ottenere condizioni più equilibrate per le esportazioni europee. Ma non solo: è fondamentale investire nella comunicazione e nell’educazione del consumatore. Gli accordi bilaterali rappresentano uno strumento importante, ma non sono sufficienti. Attualmente in Cina i nostri prodotti sono conosciuti soprattutto nel mondo della ristorazione, dove la cultura gastronomica è più approfondita. Ma se vogliamo aprire davvero quei mercati, dobbiamo parlare direttamente ai consumatori.
Spostandoci sul fronte continentale, la nuova Politica Agricola Comune (PAC) ha evidenziato obiettivi ambiziosi in termini di sostenibilità e competitività e ha, allo stesso tempo, suscitato diverse critiche. Quali sono le principali sfide – in senso positivo che negativo – che la nuova PAC presenta? Ritiene che siano necessari ulteriori interventi per garantire la corretta salvaguardia dei prodotti DOP e IGP e un futuro sostenibile al comparto o il quadro è già sufficientemente definito?
Dal punto di vista normativo, con il regolamento entrato in vigore nella primavera del 2024, direi che siamo messi piuttosto bene: le tutele per le DOP e IGP ci sono, il quadro è completo. Ma una cosa è scrivere le leggi, un’altra è farle rispettare. E in questo caso il lavoro non è finito. Ci stiamo confrontando con la Commissione e anche con l’EUIPO – l’ufficio dell’UE che gestisce le domande di deposito di marchi – che spesso interpreta le norme sulla registrazione dei marchi in modo discutibile. Quello che manca è uno sviluppo concreto delle indicazioni geografiche. Nella PAC precedente si è dato molto spazio al biologico, con piani d’azione, comunicazione e sostegni. La stessa cosa andrebbe fatta ora per le IG. Serve un vero Action Plan europeo, altrimenti rischiamo di lasciare tutto fermo sulla carta. Le sfide più grandi sono sulla competitività. Gli accordi bilaterali aprono spazi, ma dobbiamo essere all’altezza. E noi, in Italia, abbiamo un problema strutturale: poca superficie coltivabile, molto frazionamento, costi elevati, e tutto questo incide sulla capacità di essere competitivi. Poi c’è la questione “fitosanitari”: questa guerra ideologica ai fitofarmaci non ha basi scientifiche. Un esempio su tutti: la crisi del mais. Da una parte ci tolgono gli strumenti di protezione, dall’altra siamo molto in ritardo rispetto alle TEA, le tecniche di evoluzione assistita. È una contraddizione. Dobbiamo ricordare che il mais è fondamentale: se perdiamo il mais, mettiamo a rischio le produzioni DOP e IGP, perché questo cereale è alla base delle filiere lattiero-casearia e suinicola, e non possiamo permettercelo.




