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Mais: una coltura strategica in crisi

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Si avvicina il periodo della semina del mais e c’è disorientamento tra gli operatori del settore.

Purtroppo sono ormai svariati anni, almeno sei, in cui si registra una progressiva disaffezione alla coltura da parte di molti agricoltori italiani. La produzione  è passata dall’autosufficienza quasi totale raggiunta tra la fine degli anni Novanta e il primo decennio del nuovo Secolo ad una netta dipendenza dall’estero, tanto che in quest’ultima campagna di commercializzazione le importazioni hanno sfiorato quasi il 50% del nostro fabbisogno interno.

I dati disponibili, purtroppo, parlano chiaro:

–        il raccolto di mais nel 2016 ci fa fare un balzo indietro di circa trenta anni. Sei milioni e mezzo di tonnellate era infatti la produzione che si realizzava alla fine degli anni ’80;

–        le rese di produzione per unità di superficie coltivata sono ferme ai livelli di venti anni fa, quando nel resto del mondo sono in crescita costante;

–        la ricerca è stata confinata nelle provette in laboratorio e abbiamo chiuso la porta ad ogni forma di innovazione che sono il vero motore dello sviluppo, ragion per cui non vi è stato un miglioramento né nelle rese né nella qualità della produzione nazionale;

–        il costo delle perdite per il nostro sistema Paese degli ultimi 4 anni determinato dalla sola perdita di produzione è stato superiore a 3 miliardi di euro.

Non c’è dubbio che certe scelte di politica agricola siano state fatte, in particolare nel nostro Paese, sottovalutando in modo grave il problema. Un  problema che va ad impattare, si badi bene, non su una produzione secondaria nel panorama agroalimentare italiano, ma su una materia prima strategica per la nostra zootecnia e per le produzioni alimentari che ne derivano, ivi comprese tutte quelle di eccellenza che caratterizzano il made in Italy alimentare.

Sarebbe, pertanto, opportuno che si riflettesse sul fatto che il mais ha rappresentato e rappresenta ancora oggi – nonostante la forte riduzione – la prima produzione cerealicola nazionale per quantità raccolta e che, come detto sopra, il mais non ha mai perduto la sua importanza primaria per l’economia agricola e zootecnica di importanti aree del nostro Paese, soprattutto della pianura Padana ma anche del centro Italia.

Oggi più che mai la maiscoltura in Italia mantiene del tutto intatte tutte le sue prerogative di produzione strategica ed indispensabile per le necessità del nostro sistema agro-zootecnico. Il bilancio italiano del mais evidenza, infatti, che la disponibilità di mais per soddisfare  il consumo interno sia di almeno 11 milioni di tonnellate all’anno, delle quali circa l’80% destinate all’alimentazione degli animali.

Occorre però ridare motivazioni ai produttori di mais, mettendo loro a disposizione gli strumenti necessari a recuperare il forte gap di competitività che si è accumulato in venti anni a causa soprattutto del blocco alla ricerca in campo e della rinuncia all’innovazione. Un forte contributo in questa direzione può provenire sicuramente dal grande potenziale che può essere offerto dalla ricerca pubblica e dalla nuova frontiera aperta dalle “new breeding technologies”, per migliorare le perfomance varietali, in particolare le rese e la qualità, soprattutto sanitaria, del mais italiano.

Così come sarà necessario favorire lo sviluppo di altri strumenti come l’agricoltura di precisione, l’affinamento di pratiche agronomiche più efficienti e la formazione degli addetti al settore, l’ammodernamento delle strutture di stoccaggio, per creare una filiera efficiente e in grado di rispondere alle esigenze di un mercato in continua evoluzione.

 

Foto: Pixabay

Giulio Gavino Usai