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Mitigazione delle emissioni di gas climalteranti da parte dei ruminanti: il contributo della mangimistica

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carne bovina

Secondo la maggior parte delle istituzioni internazionali, l’aumento della concentrazione di CO2 nell’atmosfera è la causa principale dei cambiamenti climatici in atto. Tale variazione nella composizione dell’atmosfera è correlata allo sviluppo delle attività antropiche sul pianeta negli ultimi 150 anni, ivi compresa le attività agricole e di allevamento, che nel tempo hanno aumentato l’emissione in atmosfera sia di CO2 sia di gas considerati ad impatto ancora più elevato nell’effetto serra quali il metano, il protossido di azoto e, indirettamente, l’ammoniaca. Tutte le attività produttive, pertanto, sono chiamate a contribuire alla mitigazione delle emissioni di gas ad effetto climalterante (GHG). In particolare, nell’ambito del settore agricolo, le produzioni zootecniche contribuiscono per circa la metà delle emissioni complessive di GHG e per larga parte delle emissioni di un gas in particolare, il metano. Questo aspetto è legato al fatto che il metano è prodotto dai ruminanti come naturale e fisiologica conseguenza della fermentazione della fibra da parte dei microrganismi simbionti che abitano il rumine e che consentono all’animale di ottenere energia dai substrati fibrosi ricchi in cellulosa, emicellulosa e pectina. Un altro contributo significativo, ma di minor entità rispetto al precedente, proviene dalle emissioni di metano e protossido di azoto da parte delle deiezioni di tutte le specie allevate. Tale contributo deriva dalla fermentazione cui vanno incontro le deiezioni durante il loro stoccaggio ed è tanto maggiore quanto maggiore è la concentrazione di sostanza organica e, in particolare, di azoto presente nelle deiezioni.

Oltre a questi due contributi ve ne sono altri, di minor entità, collegati ai gas emessi dagli impianti di produzione degli alimenti per animali, al trasporto dei mezzi tecnici, alla coltivazione delle granelle e dei foraggi, alle superfici mantenute a prato-pascolo permanente. Infine, un ruolo molto importante nel definire l’impatto complessivo delle attività zootecniche sul fenomeno dei cambiamenti climatici è giocato dai cambiamenti di uso del suolo indotti dall’espansione delle aree di coltivazione delle colture dedicate alla produzione degli alimenti per animali o delle superfici dedicate ai prato-pascoli. Tale espansione, infatti, è stata spesso operata ai danni delle superfici forestali, soprattutto nelle aree tropicali e sub-tropicali dove sia l’attività zootecnica estensiva sia la coltivazione di indispensabili materie prime per la mangimistica (soia, mais, cotone, ad esempio) sono largamente praticate. Gli alberi, infatti, sono uno degli strumenti più efficaci che l’uomo ha per sequestrare il carbonio dell’atmosfera e immobilizzarlo per molti anni. La riduzione delle aree a foresta di fatto diminuisce la capacità del pianeta di equilibrare la concentrazione di CO2 in atmosfera attraverso l’attività di sequestro del carbonio. Anche se negli ultimi 10 anni in molte aree del pianeta questa pratica è stata fortemente ridotta o addirittura proibita (in Brasile è stata bandita nel 2005), grazie anche agli interventi e all’opera di sensibilizzazione di autorevoli istituzioni internazionali, il problema non si può considerare del tutto risolto e, in ogni caso, fa sentire i suoi effetti per periodi di almeno vent’anni, a causa del ciclo biologico molto lungo delle piante forestali.

Tra le varie strategie di mitigazione che sono state proposte per il settore delle produzioni zootecniche, alcune interessano la produzione e l’utilizzo dei mangimi.
In particolare, il contributo che la mangimistica può fornire alla mitigazione delle emissioni dei GHG può essere riassunto nelle seguenti azioni:

– Riduzione della competizione per le materie prime destinate ad alimentazione umana
– Formulazione di mangimi che contengono ingredienti in grado di mitigare le emissioni dirette di GHG.
– Miglioramento dell’efficienza di trasformazione degli animali e riduzione delle perdite di azoto.

In merito al primo punto, il settore zootecnico è spesso oggetto di critica in quanto, come già ricordato, nelle aree in via di sviluppo la coltivazione di materie prime per mangimi ha contribuito in maniera significativa ai cambiamenti di uso del suolo che hanno interessato le grandi aree forestali del pianeta. La riduzione della competizione per la superficie agricola utilizzabile per la coltivazione di materie prime destinate a mangimi o alimenti per l’uomo passa anche per lo sviluppo di forme di economia circolare. Il pieno ed efficiente recupero dei nutrienti contenuti nei molti sottoprodotti agro-industriali necessita tuttavia dello sviluppo di vere e proprie bioraffinerie, in grado di rendere economico e tecnicamente conveniente l’utilizzo dei sottoprodotti, superando la situazione attuale, fortemente vincolata da problemi di tipo logistico e di stabilità dei molti sottoprodotti che escono dai processi produttivi ancora ricchi di umidità.

Una soluzione tecnicamente già disponibile è quella dell’utilizzo nella formulazione di mangimi di ingredienti in grado di svolgere un’azione mitigante diretta sulle emissioni di GHG. Gli oli vegetali, specie se polinsaturi, svolgono un ruolo specifico in tal senso, come riportato in molte delle rassegne bibliografiche recentemente pubblicate nella letteratura internazionale. In particolare, l’effetto mitigante è stato stimato in una diminuzione del 5-8% delle emissioni dirette di metano per ogni punto percentuale di olio vegetale introdotto nella dieta. L’effetto degli oli si esplicherebbe sia attraverso una parziale riduzione della digeribilità della fibra, sia per assorbimento di idrogeno durante i processi di bioidrogenazione degli acidi grassi polinsaturi sia per inibizione di alcuni ceppi specifici di microrganismi ruminali (in particolare i protozoi). L’uso di lipidi come strategia alimentare è considerata particolarmente interessante in quanto consente di ottenere una significativa riduzione dell’emissione di metano e, al contempo, un effetto positivo sulla qualità nutrizionale del latte e della carne dei ruminanti, qualora si utilizzino fonti lipidiche come l’olio di lino o i semi di lino. In questo caso, infatti, è noto l’incremento di acidi grassi omega-3 e di acido linoleico coniugato che si ottiene nel grasso del latte e della carne.
Un’altra tipologia di ingrediente per la quale è stato accertato un effetto significativo sulla produzione di metano è quella dei tannini o, più in generale, delle sostanze polifenoliche. Tali sostanze possono essere aggiunte direttamente come ingrediente derivante da estratti commerciali oppure possono essere contenute in quantità ancora molto rilevanti in molti sottoprodotti dell’industria agroalimentare. In quest’ultimo caso si sommerebbero due strategie con effetti sinergici. Sia i tannini idrolizzabili sia quelli condensati riducono l’emissione diretta di metano da parte dei ruminanti, tuttavia con diversi meccanismi di azione. I tannini condensati agiscono prevalentemente sulla diminuzione della digeribilità della fibra, andando così anche a ridurre l’efficienza digestiva dell’animale. Più interessante è l’effetto dei tannini idrolizzabili, che agiscono sui metanogeni senza ridurre la digeribilità della fibra.

Sia l’integrazione con lipidi sia quella con tannini sono considerate buone pratiche di razionamento e di formulazione dei mangimi già applicabili e con un risultato atteso sufficientemente certo. Ci sono poi altre strategie, al momento nella fase di studi pilota, che prevedono l’utilizzo di nitrati come strumento di mitigazione delle emissioni di metano. Tale strategia, al momento, è considerata promettente, ma rimangono ancora da accertare quali siano i meccanismi di azione, le motivazioni di alcuni risultati contradditori ottenuti in letteratura e il grado di accettabilità che avrebbe sul mercato da parte dei consumatori.

Infine, lo sviluppo di strategie di precision feeding può consentire di raggiungere importanti risultati nella riduzione delle emissioni di GHG, sia aumentando l’efficienza di trasformazione degli animali e, pertanto, la quantità di GHG per kg di produzione, sia diminuendo l’escrezione azotata e, con essa, la concentrazione di ammoniaca nelle deiezioni. L’industria mangimistica può aiutare a promuovere l’adozione di buone pratiche da parte degli allevatori volte a ottimizzare l’utilizzo dei nutrienti da parte degli animali. In tal senso sono di sicuro ausilio sia l’utilizzo di strumenti di razionamento sempre più precisi ed efficienti sia l’adozione nell’ambito delle strutture di allevamento dei molti sensori che di anno in anno sono sviluppati per valutare le performance produttive, lo stato sanitario e i fabbisogni degli animali.

In definitiva la crescente domanda da parte dei consumatori di alimenti di origine animale che abbiano una chiara connotazione nel senso della sostenibilità ambientale suggerisce che nel breve periodo da parte degli allevatori nascerà la richiesta di mangimi che forniscano non solo il giusto apporto di nutrienti per alimentare in maniera equilibrata gli animali, ma anche un supporto tecnico alla mitigazione delle emissioni dirette di GHG da parte degli animali, contribuendo così alla valorizzazione del latte e della carne anche dal punto di vista ambientale. Solo a titolo esemplificativo, già oggi esistono grosse industrie del settore lattiero caseario che richiedono ai propri allevamenti conferenti uno sforzo nell’adozione di tecniche di mitigazione delle emissioni di GHG, anche tramite l’adozione di strategie alimentari specifiche (http://www.arla.com/company/responsibility/environmental-strategy/sustainable-farming). Anche in Italia, seppur su scala più ridotta, esistono realtà produttive nel settore lattiero caseario che hanno sviluppato vere e proprie certificazioni ambientali di prodotto che richiedono l’adozione di tecniche di mitigazione nell’ambito dell’intera filiera.

Foto: © Sven Grundmann – Fotolia.com

Marcello Mele