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Paolo De Castro: “La direttiva contro le pratiche commerciali sleali in difesa dei produttori più deboli”

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Sul ruolo dell’innovazione: “Con miglioramento genetico e tecnologie digitali si può rispondere ai cambiamenti climatici e alle sfide dell’agricoltura e dell’alimentazione del futuro”

Due anni per bandire le pratiche commerciali sleali nella filiera agroalimentare. Dopo il via libera del Parlamento europeo, e una volta ottenuta l’approvazione del Consiglio europeo, gli Stati membri dovranno recepire le nuove norme sulla concorrenza sleale contenute nella direttiva europea. Per la prima volta nel settore agroalimentare è stato introdotto un livello minimo di tutela comune a livello europeo. Nel testo sono state individuate sedici pratiche commerciali scorrette, dai ritardi nei pagamenti alle modifiche unilaterali e retroattive dei contratti all’imposizione di pagamenti per servizi non correlati alla vendita dei prodotti agroalimentari. In seno all’assemblea legislativa il relatore della proposta di direttiva è stato Paolo De Castro, primo vice-presidente della Commissione agricoltura.

Onorevole, perché è importante che la direttiva venga recepita il prima possibile dall’ordinamento legislativo italiano?
Non vedo perché aspettare. L’Italia ha già una norma in materia, il cosiddetto articolo 62, che è anche arrivato in anticipo sui tempi ma è stato poco applicato, e la direttiva europea è un’occasione per farla evolvere e superare le difficoltà di applicazione. Con un recepimento rapido della direttiva europea potremo garantire certezza giuridica ai nostri produttori, adattando e migliorando la norma nazionale.

La direttiva prevede la possibilità che gli Stati membri completino il suo portato normativo. Quali misure dovrebbe adottare il legislatore nazionale italiano?
La direttiva si pone come standard minimo per armonizzare le legislazioni nazionali. Ma è, appunto, una direttiva, ciò vuol dire che il margine di recepimento per i legislatori dei paesi Ue è ampio. Per quanto riguarda il nostro Paese sarebbe ad esempio opportuno estendere l’ambito di applicazione della direttiva a tutti i fornitori, nei loro rapporti con acquirenti economicamente più grandi, cioè quando il fatturato dell’acquirente supera quello del fornitore. Così come sarebbe utile aggiungere due pratiche sleali non incluse nella lista delle sedici vietate a livello europeo: la vendita sottocosto e le aste al ribasso.

Quali danni producono queste pratiche commerciali sleali e quali sono i soggetti della filiera agroalimentare italiana che più di altri potranno godere degli effetti derivanti dall’applicazione della direttiva europea?
I comportamenti scorretti tra quelli che, in teoria, dovrebbero essere partner commerciali nella filiera agroalimentare assumono caratteristiche uniche, in virtù delle caratteristiche proprie del settore (per esempio, consegne dei prodotti deperibili), e notevoli differenze di potere contrattuale tra le piccole e medie imprese da una parte e le grandi imprese dall’altra. La filiera agroalimentare in Europa è fatta come una clessidra: decine di milioni di agricoltori, centinaia di migliaia di imprese delle trasformazione e qualche migliaio di acquirenti che rivendono a centinaia di milioni di consumatori. Le pratiche commerciali colpiscono i produttori più deboli, come gli agricoltori, il danno stimato di questi comportamenti scorretti in Europa ammonta a oltre 10 miliardi di euro l’anno e i costi aggiuntivi per chi li subisce a circa 4,4 miliardi di euro.

Quali saranno i benefici diretti per il consumatore?

Le pratiche sleali hanno un impatto anche sui consumatori. Una filiera caratterizzata da una distribuzione inefficiente delle risorse è un ricettacolo per gli sprechi e mette sotto pressione anche i produttori più scrupolosi, in una corsa al ribasso dei prezzi che deprime sia la qualità del prodotto che finisce sulle tavole delle famiglie e dei cittadini sia la qualità del processo di produzione incentivando sfruttamento del lavoro e pratiche produttive non sostenibili. Mercati poco trasparenti corrono spesso il rischio di essere mercati inefficienti, il che provoca danni non solo all’economia ma anche alla società.

In Italia a quale autorità dovrebbe essere affidata l’attività di vigilanza e contrasto delle violazioni alle norme della direttiva?
A mio avviso, all’Autorità garante per la concorrenza andrebbero affiancate altre autorità di contrasto che abbiano una conoscenza specifica di rapporti negoziali all’interno della filiera agroalimentare, sfruttando in particolar modo l’esperienza del Dipartimento dell’Ispettorato centrale della tutela della qualità e repressione frodi dei prodotti agroalimentare, l’ICQRF.

La scorsa estate, quando mancava meno di un anno alla fine di questa legislatura, la Corte di Giustizia europea ha equiparato gli organismi ottenuti mediante mutagenesi agli OGM. Crede che nei prossimi cinque anni l’Ue debba rivedere la normativa sulle New Breeding Techniques? E in che termini?
La sentenza della Corte di giustizia pronunciata lo scorso luglio ha colto un po’ tutti di sorpresa. In pratica equipara da un punto di vista giuridico OGM e nuove biotecnologie applicando all’estremo il principio di precauzione. Un approccio che parte da un’interpretazione della direttiva sugli OGM del 2001, e che è del tutto legittimo, ma che crea diversi problemi all’innovazione varietale e al commercio internazionale. Il merito della sentenza è mostrare che è il caso di cambiare qualcosa in una legislazione concepita oltre vent’anni fa, quando non erano disponibili le attuali conoscenze non solo sugli effetti della tecnica che permette di realizzare piante transgeniche ma anche, e soprattutto, sugli sviluppi dell’ingegneria genetica, che oggi permette di accelerare selezioni e incroci in tutto e per tutto simili alle tecniche più tradizionali. Come ho chiesto al commissario competente Vytenis Andriukaitis, che di recente lo ha confermato pubblicamente, la Commissione europea, deve trovare soluzioni legislative a questa impasse che rischia di pregiudicare l’innovazione varietale in Europa.

Qual è il ruolo dell’innovazione tecnologica in agricoltura e quali benefici può comportare al settore primario in Europa e in Italia?
Innovazione in agricoltura vuol dire molte cose e può avvenire anche nell’intersezione di pratiche, tecniche e conoscenze. Voglio dire che l’innovazione che funziona in agricoltura non è mai solo ‘tecnologica’, cioè legata a specifici strumenti. A mio parere due sono le aree più dense di opportunità e di sfide: il miglioramento genetico e le tecnologie digitali. Entrambe possono assumere un ruolo essenziale per rispondere ai cambiamenti climatici e alle sfide dell’agricoltura e dell’alimentazione del futuro. A patto di avere un dibattito franco e aperto su cosa vogliamo dall’agricoltura del futuro.

Vito Miraglia