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Le filiere zootecniche nazionali di fronte all’emergenza Covid19: una riflessione ASPA-Georgofili

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L’Accademia dei Georgofili, in collaborazione con l’ASPA, ha organizzato il 1 luglio scorso una conferenza in remoto sull’impatto della pandemia Covid-19 sulle filiere zootecniche italiane. Alle assise hanno partecipato il presidente Assalzoo Marcello Veronesi che, nella sua relazione, ha sottolineato lo straordinario lavoro compiuto del sistema mangimistico italiano per garantire l’approvvigionamento alimentare agli allevamenti e non interrompere la produttività delle principali filiere zootecniche nel periodo di emergenza sanitaria. Il presidente ha anche messo in luce le difficoltà affrontate (e risolte) dall’industria mangimistica nazionale relative al parziale blocco della movimentazione transfrontaliera delle materie prime e trasformate e ai nuovi obblighi imposti agli stabilimenti in materia di sicurezza per distanziamento sociale quali misure preventive al diffondersi dell’epidemia Covid-19.

Gli interventi che si sono succeduti, hanno portato alla stesura di un articolato documento, curato dai professori Gianni Battacone, Giovanni Bittante, Alessio Bonaldo, Giuseppe Campanile, Vincenzo Chiofalo, Vittorio Dell’Orto, Andrea Formigoni, Marcello Mele, Riccardo Negrini, Massimiliano Petracci, Giuseppe Pulina, Giovanni Savoini, Agostino Sevi, supervisionato dai professori Nicolò Macciotta, Bruno Ronchi e  Alessandro Nardone, del quale riportiamo di seguito i punti salienti. Il documento completo è rintracciabile in italiano presso il sito dell’Accademia dei Georgofili e in inglese presso il sito dell’Italian Journal of Animal Science.

Il quadro economico e la pandemia Covid-19

La pandemia di Sars-Cov-2 (agente virale infettivo identificato comunemente come Covid-19) comporterà la peggiore recessione economica globale dalla Seconda guerra mondiale a oggi. La chiusura delle attività produttive e sociali imposta dai regimi di quarantena adottati dai Governi della maggior parte dei Paesi porterà a una riduzione del Pil mondiale valutabile fra il 5 e il 10%, con un recupero dei livelli anti-Sars-CoV-2 raggiungibile soltanto nel 2022 (salvo altri disastri imprevedibili). Per l’Italia si prevede una recessione più pesante rispetto agli altri Paesi Ocse a causa della debolezza strutturale del sistema-Paese, con la maggioranza degli analisti che stima in -15% il calo del Pil nel secondo trimestre, seguito da un -7% nel terzo e -5% nel quarto. L’agricoltura dovrebbe, tuttavia, subire solo un modesto calo delle attività, valutabile in -5% nel terzo trimestre, per assestarsi su un incoraggiante 97% su base annua (migliore performance, dopo la pubblica amministrazione e l’ICT).

Se gli effetti della pandemia Sars-CoV-2 sul macrosettore delle produzioni animali possono essere valutati in base alle informazioni provenienti dai canali di mercato della grande distribuzione organizzata, va però tenuto presente che una quota importante del comparto è articolata in realtà con forte radicamento locale. A tale riguardo possono essere ricordate le numerose produzioni Dop e Igp, talvolta basate su pochi produttori e trasformatori, con canali di mercato diversificati e non sempre tracciabili con la sopra citata fonte. Esistono poi realtà agro-zootecniche che, oltre a caratterizzarsi per produzioni tipiche di elevata e riconosciuta qualità, con la loro presenza rappresentano un elemento fondamentale per il presidio del territorio e la conservazione del paesaggio. Questo aspetto, che attiene ai servizi agro-eco-sistemici, è di difficile e complessa quantificazione. Tali realtà spesso svolgono anche attività agrituristica, per lungo periodo bloccata dalle misure di contenimento dell’epidemia, con conseguente cancellazione di un’importante fonte di reddito alle aziende zootecniche che praticano forme dirette di commercializzazione e di filiera corta.

Vediamo ora l’impatto della pandemia Covid-19 sulle principali filiere nazionali.

Impatto sulla filiera del bovino da latte

Il settore del latte e derivati ha dovuto fronteggiare, nel periodo della pandemia, una riduzione dell’esportazione e del consumo da parte del settore Horeca., non completamente bilanciata da un aumento dei consumi casalinghi di tali prodotti a causa del lockdown. Nei primi giorni dello scoppio dell’emergenza Sars-CoV-2, si è diffusa la convinzione che la riduzione della produzione del latte a livello aziendale, e quindi dei conferimenti all’industria, potesse rappresentare una valida strategia di breve periodo per far fronte al calo della domanda. Caseifici privati di piccole e medie dimensioni hanno fatto delle richieste in tal senso agli allevatori. Tale strategia è stata ripresa anche da organizzazioni di categoria.

La riduzione dell’alimentazione delle bovine per ottenere un calo di produzione non appare però una scelta razionale in quanto non riduce la produzione in maniera accettabile. Nel caso di una restrizione alimentare eccessiva, prima di contrarre la produzione la bovina tende a dimagrire (consuma le proprie riserve corporee) con delle ripercussioni sul benessere e sulla sanità della stessa (chetosi, infertilità, dismetabolismi, zoppie, ecc.). Se si riduce l’apporto proteico (sino al 12% sulla sostanza secca [ss] della razione) senza variare quello energetico, si ottengono delle moderate riduzioni dell’appetito (1-2 kg/d in meno di ss ingerita al giorno), della produzione (-2-3 L/d) e del contenuto proteico del latte (- 0,1-0,2%), evitando il dimagrimento della bovina.

Una soluzione alternativa all’intervento sull’alimentazione per ridurre la produzione potrebbe essere quella dell’anticipo della riforma di vacche destinate a essere eliminate a fine lattazione (infertilità, mastiti, scarsa produzione, basso valore genetico,ecc.). Un’altra interessante alternativa, poco praticata in Italia, è il passaggio a una sola mungitura giornaliera. Tale tecnica potrebbe trovare applicazione per vacche di livello produttivo non elevato o a fine lattazione. In questo modo, a fronte di una riduzione di 5-7 litri di latte prodotto per animale al giorno e di un leggero aumento del rischio di mastite nei primi giorni di lattazione, si otterrebbe una riduzione del 50% del lavoro di mungitura, il risparmio di 3-4 kg al giorno di sostanza secca consumata dall’animale, un miglioramento della qualità del latte e della persistenza di lattazione. Il ripristino delle due mungiture giornaliere consente, una volta superata la crisi, il recupero quasi completo della produzione (1 kg/d in meno in media per la restante lattazione).

L’emergenza ha profondamente modificato il lavoro degli allevatori e la vita in stalla. Il blocco degli spostamenti ha comportato una riduzione dei contatti tra gli allevatori e altri operatori del settore. Le forme di aggregazione, discussione, confronto (fiere, manifestazioni, assemblee, riunioni, ecc.) sono totalmente sospese e difficilmente riprenderanno come prima, perlomeno nel breve-medio periodo. Da un lato questa riduzione degli impegni extra-aziendali ha permesso agli allevatori di dedicare maggior tempo alla conduzione dell’azienda. Dall’altro, la difficoltà ad avere contatti diretti con i tecnici e i venditori impatterà sui modelli di assistenza tecnica e di vendita di prodotti zootecnici (mangimi, integratori).

Il valore del lavoro degli operatori di stalla ha assunto una maggiore importanza. La minore disponibilità e mobilità della manodopera ha infatti imposto una maggiore attenzione alle necessità degli operatori. Gli imprenditori hanno preso atto della potenziale fragilità del sistema. Ciò presumibilmente comporterà una maggiore spinta verso l’automazione e dei sistemi di controllo, in particolare per la mungitura, con conseguente aumento della necessità di manodopera specializzata e preparata a convivere con il rischio di pandemie. Sarà altresì necessaria la strutturazione di piani di emergenza del caso l’infezione colpisse un allevamento e ponesse la necessità di quarantena per gli operatori.

Un altro aspetto fondamentale dell’impatto della pandemia a livello aziendale riguarda la salute dell’allevatore e del suo nucleo familiare. La larghissima maggioranza delle aziende di bovini da latte sono a conduzione familiare. Un’eventuale positività al Sars-CoV-2, anche asintomatica, di uno dei componenti il nucleo familiare comporterebbe la messa in quarantena di tutta la famiglia con evidenti ripercussioni per l’azienda. Positività con sintomi gravi e ospedalizzazione comporterebbero ulteriori complicazioni per le attività aziendali.

Impatto sulla filiera del bovino da carne

Nei primi due mesi di epidemia da coronavirus il settore bovino ha subito ripercussioni negative di modesta entità. A fronte di una riduzione di domanda si è fatto ricorso al rinvio della macellazione, in alcuni casi riducendo la concentrazione energetica della razione. Rimane però la prospettiva di una sovrapproduzione futura. Il più penalizzato è stato il settore del vitello a carne bianca. Per quanto riguarda la produzione del vitellone (carne rossa), si sono evidenziati due andamenti diversi dell’importazione come conseguenza delle misure restrittive. Nello specifico si è avuta una riduzione dell’importazione di carni macellate e congelate, a causa della sospensione dell’attività dei ristoranti e della ristorazione collettiva. Di converso l’importazione di animali vivi, che all’atto della macellazione (dopo sei mesi) possono essere dichiarati “allevati in Italia”, conserva un trend leggermente positivo.

Il mercato della vacca a fine carriera è al momento in crisi, fondamentalmente per il crollo della richiesta degli hamburger da parte della ristorazione (soprattutto fast food) e della pelle per il blocco delle produzioni a essa collegate (principalmente sedili per auto). Rimane invece costante il consumo per la trasformazione nell’industria alimentare (ripieni, sughi, salumeria, ecc.). Come conseguenza il prezzo delle bovine a fine carriera è crollato in questi mesi, anche se al momento vi sono timidi segnali di ripresa. Come già accennato nel paragrafo dedicato, una delle strategie considerate per ridurre la produzione nella filiera del bovino da latte è quello dell’anticipo della riforma delle vacche a inizio dell’ultima lattazione. Tale intervento comporterebbe l’aumento dell’offerta di carcasse di questa tipologia, aggravando la situazione descritta in precedenza. Tra i possibili interventi potrebbe essere considerato quello di attivare un intervento da parte del Governo mirato al ritiro delle carcasse, loro stoccaggio mediante congelamento in attesa della riapertura del canale Horeca.

Più sofferenti le filiere di “pregio” specializzate nel fornire i ristoranti. Le aziende si stanno muovendo con decisione con il commercio elettronico e la fornitura a domicilio anche delle carni. Un modello nuovo che necessita di strutture di trasformazione specializzate nella valorizzazione di tutti i tagli.

Impatto sulla filiera degli ovini da latte

Il settore del latte ha sofferto nel 2019 una delle peggiori crisi di sistema, culminata con le proteste clamorose dei pastori della Sardegna e con la distruzione di ingenti quantità di latte prodotto, manifestazioni replicate a macchia di leopardo in altre regioni italiane. La contrazione delle produzioni di Pecorino Romano Dop, formaggio al cui prezzo di vendita è ancorato quello di acquisto del latte presso le aziende pastorali in quanto rappresenta circa il 50% della produzione nazionale di formaggi ovini, e alcuni provvedimenti governativi e della Regione Autonoma della Sardegna (acquisto indigenti, pegno rotativo, ecc.), hanno provocato una minore produzione e dato respiro allo smaltimento del formaggio accumulato in magazzino.

Le stime Clal al mese di marzo indicano per il 2020 un aumento produttivo di Pecorino Romano del 30% sull’annata precedente, dato che allinea l’output del formaggio ai valori dell’annata 2017/18, anche in presenza di un volume di latte destinato a questa produzione tendenzialmente inferiore a quello delle annate precedenti.

Sul fronte dei prezzi di vendita, si è verificato un rimbalzo significativo che ha portato la quotazione di marzo 2020 ai livelli del massimo relativo raggiunto a gennaio 2018.

L’impatto dell’epidemia di Sars-CoV-2 sul settore latte ovino ha rafforzato la tendenza a orientare la maggior quota di produzione verso un formaggio a lunga stagionatura quale il Pecorino Romano. Infatti, la pesantezza del mercato del formaggio fresco e semi stagionato, i cui effetti si sono rivelati perniciosi sul fronte del latte bovino, unitamente all’incertezza della tenuta dei canali export, hanno consigliato ai trasformatori la riduzione del rischio immediato che è stato spalmato su un orizzonte più lungo. La chiusura dei canali Horeca, unitamente al rallentamento delle attività della pasticceria tradizionale, fatto quest’ultimo che ha colpito principalmente le produzioni di ricotta, ha tuttavia messo in crisi i piccoli produttori-trasformatori, in particolare i detentori di agriturismi o di circuiti commerciali di vendita diretta, che hanno dovuto orientare la produzione verso assortimenti a più lunga stagionatura i cui esiti di mercato sono incerti. Nel complesso, però, sembra che il settore ovino da latte (abituato strutturalmente alle crisi più di quelli bovino e bufalino) abbia reagito meglio alle restrizioni grazie anche al favorevole momento del Pecorino Romano.

Impatto sulla filiera del bufalo

La recente crisi legata alla pandemia Sars-CoV-2 sta avendo pesanti ripercussioni negative sull’intera filiera bufalina. Gli anelli che la compongono sono strettamente legati e non esistono altri sbocchi commerciali per il latte di bufala se non la trasformazione in mozzarella di bufala campana. La chiusura del canale Horeca dall’8 marzo 2020 ha causato una contrazione dei consumi di circa il 40/50%, in costante aumento. Il mondo della trasformazione, nonostante i cali del mercato, ha proseguito la raccolta del latte destinandolo tuttavia alla conservazione tramite congelamento. Il Mipaaf, vista la crisi, per evitare un ulteriore danno economico derivante dal declassamento del latte di bufala congelato, ha concesso una modifica temporanea al disciplinare di produzione ammettendo l’uso del latte congelato per la produzione di mozzarella di bufala campana Dop.

La contrazione dei consumi sta causando, come detto, problemi su tutti gli anelli della filiera. Al fine di mantenere i valori economici i caseifici stanno proseguendo la raccolta del latte (consolidando così il comparto zootecnico), ma nello stesso tempo sta incrementando il volume del latte congelato. Si stima che a oggi siano stati congelati solo per la filiera del Dop Mozzarella di Bufala Campana, che rappresenta circa il 70% del prodotto fresco a pasta filata di latte di bufala, circa 20 milioni di kg di latte di bufala. Ciò ha comportato un abbassamento del prezzo del latte alla stalla di circa il 25%. Nel periodo compreso tra marzo e aprile, a causa del lockdown e di conseguenza dell’assenza del flusso turistico e della chiusura di ristoranti e pizzerie, l’unica fonte di consumo è stata la Gdo che ha causato una contrazione del prezzo della mozzarella di bufala.

In questa fase potrebbe essere impostata un’azione volta a sviluppare un’economia circolare nella filiera, valorizzando tutti gli elementi che la compongono al fine di generare un volano economico positivo sul territorio. La Regione Campania ha annunciato un intervento (un investimento pari a 10 milioni di euro) per limitare il volume di latte di bufala sul mercato. L’intervento prevede l’erogazione di un contributo di 1 euro a litro di latte per il 30% dell’intera produzione di 45 giorni. I costi industriali di disidratazione del latte saranno recuperati attraverso l’acquisizione da parte dell’industria di tutto il grasso e di parte del latte scremato in polvere. Quest’ultimo verrà utilizzato per produrre succedaneo per l’allattamento dei vitelli con almeno il 55% di latte magro di bufala che verrà restituirlo in quota parte all’allevatore. Ciò dovrebbe consentire il recupero di ulteriori 0,5 euro per litro di latte che ha beneficiato di contributo pubblico. Oltre all’aspetto economico, l’utilizzo del succedaneo avrebbe effetti positivi sulle performances di accrescimento dei vitelli.

Impatto sulla filiera suina

Anche il settore delle produzioni suinicole ha risentito fortemente dell’impatto della pandemia Sars-CoV-2, seppure con effetti diversi per i vari componenti della filiera. Da una parte, infatti, si registra la tenuta, o addirittura l’aumento, dei consumi delle famiglie legati prevalentemente al circuito della Gdo, che però non riesce a controbilanciare il calo drammatico della domanda dell’Horeca. Alla improvvisa contrazione della domanda ha fatto seguito la riduzione delle richieste dei macellatori che ha immediatamente inciso con il rallentamento dei ritiri di animali pronti dagli allevamenti. A ciò va aggiunto l’ulteriore riduzione del ritmo delle attività di macellazione causato dalla adozione delle misure di prevenzione per il contenimento del contagio del Sars-CoV-2 nei macelli.

Le conseguenze immediate per gli allevatori, in particolare relativamente ai lotti di animali pronti per il macello, sono state il deprezzamento del valore dei capi, l’aumento dei costi di alimentazione e la difficoltà nel governo degli spazi in allevamento a causa del rallentamento del flusso di uscita degli animali. Peraltro la difficoltà nella collocazione dei suini pesanti ha spinto diversi allevatori alla vendita di suini al peso di magroni per l’approvvigionamento delle macellerie con un conseguente esubero dell’offerta e calo dei prezzi anche dei magroni.

La difficoltà generale nella collocazione dei suini ha avuto i suoi effetti anche per le scrofaie a causa della contrazione repentina della domanda di suinetti e conseguente aumento della presenza di capi invenduti in allevamento e le relative difficoltà di gestione derivante dal sovraffollamento degli spazi. L’andamento del valore delle quotazioni dei suinetti (7 kg) e magroncelli (30 kg) nel corso del 2020 in Italia descrive in maniera efficace l’effetto della pandemia Sars-CoV-2 sul sistema di allevamento suinicolo nazionale. Infatti per queste due categorie si è avuta una crescita regolare delle quotazioni durante le prime dieci settimane del 2020, con un incremento di valore complessivo sul totale del periodo dell’ordine del 15% e 24%, rispettivamente. A partire dalla 11a settimana dell’anno, e quindi in coincidenza con l’adozione delle misure restrittive adottate per il controllo del rischio Sars-CoV-2, è iniziato il rapidissimo calo delle quotazioni di queste due categorie che, in altrettante settimane, hanno perso circa il 45% e il 53% del valore arrivando a quotazioni ben al di sotto di quelle di inizio anno. Questa dinamica è indicativa della sofferenza che stanno vivendo gli allevatori di suini italiani che si pongono anche il quesito sulla eventuale opportunità di intervenire con la riduzione volontaria delle produzioni.

Impatto sulla filiera dell’acquacoltura

L’impatto dell’emergenza Sars-CoV-2 sul settore è stato estremamente diversificato, mettendo in luce forze e debolezze dei vari settori produttivi. A livello generale, durante il lockdown, i grandi mercati del pesce a livello nazionale hanno visto cali di circa il 20-25% rispetto alle vendite dello scorso anno nello stesso periodo. Il calo è stato dovuto prima di tutto al blocco del settore Horeca dove il prodotto ittico trova un canale di vendita preferenziale. I consumatori, infatti, prediligono consumare pesce fuori casa e questo ha influenzato negativamente la domanda.

Riguardo i consumi domestici, la diminuzione delle vendite è ascrivibile, innanzitutto, al fatto che gran parte del prodotto ittico viene venduto fresco con una breve scadenza e questo ha scoraggiato i consumatori che avevano la necessità di fare la spesa meno frequentemente. L’altro fattore è legato al fatto che i consumatori percepiscono il prodotto ittico come un prodotto costoso che risulta quindi “sacrificabile” in un periodo di incertezza sanitaria ed economica. Il fatto che i grandi banchi del pesce siano presenti poi nei grandi ipermercati in genere situati fuori città, ha fatto sì che anche la disponibilità di punti vendita adeguatamente forniti di prodotto ittico sia stata inferiore.

La vendita del pesce allevato ha mostrato delle differenze tra pesce d’acqua dolce e pesce marino. Il blocco delle importazioni da Grecia e Turchia ha fatto sì che gli allevatori nazionali di branzini e orate abbiano registrato una buona tenuta di vendite sul mercato in particolare da parte della Gdo che ha di fatto mantenuto inalterate le quote di mercato, rafforzando anzi in questo modo le filiere nazionali più “corte” nei confronti del prodotto importato.

Il mercato della trota invece ha subito forti rallentamenti, soprattutto per le imprese (spesso di piccole dimensioni) orientate a rifornire il settore Ho. Re. Ca. e i laghetti di pesca sportiva, attività di fatto chiuse nel periodo di lockdown. Le aziende dulci-acquicole orientate all’esportazione (es. per produzione e vendita di anguille) hanno subito, soprattutto nei mesi di marzo e aprile, la quasi totale chiusura dei mercati. Per quanto riguarda i molluschi si sono registrate perdite commerciali comprese tra il -40 e il 100% del fatturato rispetto al corrispettivo bimestre 2019, con valori medi attestati al -70%. Tali dati sono peggiori rispetto al comparto della pescicoltura, poiché il principale sbocco di vendita dei molluschi sono i settori appartenenti al sistema Horeca. Peraltro la molluschicoltura, in particolare l’allevamento di mitili, presenta limiti e problematiche gestionali che hanno richiesto manutenzione aggiuntiva degli impianti produttivi, per la lavorazione e riposizionamento delle reste presso le strutture long-line, per evitare al raggiungimento della taglia commerciale problemi di stabilità e tenuta delle strutture di allevamento.

È tuttavia interessante notare che, alla luce anche dei motivi appena descritti, è cresciuta la vendita di prodotto congelato fino a dei picchi nel periodo di aprile del 20-25%. I consumatori hanno preferito prodotti già puliti, pronti da cuocere con tempi di conservazione più lunghi e con prezzi di vendita sostenibili da parte delle famiglie. La filiera della pesca nazionale, spesso costituita da piccoli armatori, ha maggiormente sofferto il calo di vendita per la mancanza di assetti organizzativi e logistici in grado di sopportare e gestire i rapidi mutamenti di domanda/offerta che si sono succeduti durante il periodo di lockdown.

Impatto sulle filiere avicunicole

Rispetto ad altri settori del comparto agro-alimentare il mercato delle carni avicole è meno dipendente dal settore Horeca. Pertanto l’aumento della domanda del canale di vendita della Gdo registrato già dalla fine di febbraio ha ampiamente compensato la riduzione delle vendite attraverso il canale della ristorazione e della gastronomia. Rispetto agli altri settori zootecnici, per ragioni strutturali, la filiera delle carni avicole ha acquisito un grado maggiore di flessibilità che le ha permesso di reagire prontamente al drastico cambiamento indotto dall’emergenza sanitaria. L’elevato grado di integrazione delle filiere e la concentrazione del settore tra pochi operatori di grandi e medie dimensioni, ha consentito alla produzione di adattarsi in tempi rapidissimi al radicale cambiamento determinato dagli effetti del lockdowne delle restrizioni sanitarie. Tale reattività, favorita indubbiamente anche dai cicli brevi di allevamento, ha consentito di ridurre fortemente la produzione della categoria commerciale “pollo leggero”, macellato a un peso vivo di 1,2-1,7 kg e destinato prevalentemente al canale Horeca, ritardando la macellazione di 1-2 settimane e destinando i medesimi polli alla produzione delle categorie commerciali “pollo medio” (peso medio 2,5 kg) e “pollo pesante” (peso medio > 3 kg) impiegate prevalentemente per la preparazione di sezionati e trasformati di facile utilizzo e preparazione da parte del consumatore che hanno spinto l’aumento della domanda osservato nei primi due mesi di lockdown. In questo contesto, come riportato in precedenza, la sostanziale autosufficienza ha inoltre preservato il settore avicolo dalle problematiche legate agli scambi commerciali con l’estero.

Nell’ambito delle cosiddette “carni bianche”, le carni cunicole non hanno beneficiato dell’aumento della domanda che ha privilegiato le carni avicole rispetto alle altre carni, ma al contrario si è assistito ad un’ulteriore contrazione delle vendite aggravando una situazione già piuttosto problematica per la coniglicoltura nazionale. Infatti si è assistito a un considerevole calo dei consumi e la perdita dei canali più tradizionali, quali la ristorazione, soprattutto in Piemonte, Veneto, Toscana e Umbria. Inoltre il confinamento ha reso nel complesso più difficoltoso l’approvvigionamento da parte delle famiglie presso i punti vendita al dettaglio che per il coniglio sono rappresentate principalmente dalle macellerie tradizionali rispetto alla Gdo.

Discorso a parte meritano le uova che hanno evidenziato riflessi sulla produzione di entità persino superiori rispetto a quello delle carni. Come per il comparto delle carni avicole, la produzione nazionale è in grado di soddisfare la domanda interna (grado di auto-approvvigionamento pari al 97%) che si mantiene su livelli di consumi sostanzialmente costanti a partire dal 1995. La chiusura pressoché totale del canale Horeca ha drasticamente ridotto la domanda di ovo-prodotti, mentre si è assistito ad un eccezionale aumento della domanda di uova in guscio, che ha raggiunto picchi di oltre il 60%, nonché di ovo-prodotti di base utilizzati per preparazioni semplici o più elaborate a livello domestico alle quali si sono ampiamente dedicati i cittadini durante la fase di lockdown. Così come per le carni avicole, l’autosufficienza della produzione nazionale e l’elevato grado di concentrazione e integrazione verticale delle aziende che operano nel settore uova, hanno consentito di convertire in tempi rapidissimi la produzione al fine di soddisfare la crescente domanda di uova in guscio distribuite attraverso la Gdo e ridurre quindi i danni dovuti all’improvvisa contrazione della richiesta di ovo-prodotti da parte del settore della ristorazione collettiva e della gastronomia.

Foto: Pixabay