In tempi di pandemia sembra che l’allevamento di bestiame in strutture al coperto e in condizioni controllate possa ridurre il rischio pandemico sugli animali e di cross-contaminazione. Lo rivela uno studio pubblicato sulla Royal Society Open Science, secondo il quale l’allevamento confinato è meno rischioso rispetto all’allevamento “all’aperto” perché gli animali sono protetti e più facili da monitorare. Grazie ai minori contatti con gli animali selvatici, ai quali l’allevamento “a basso rendimento” erode territorio, si riducono le possibilità di contatto con virus pericolosi come la Sars, il Covid-19 e l’aviaria.
“L’allevamento intensivo o ad alto rendimento è accusato di pandemie, ma coloro che chiedono un allontanamento dall’allevamento intensivo spesso non considerano il rischio pandemico allevamenti meno intensivi e in particolare le conseguenze per uso del suolo” ha detto Harriet Bartlett, autrice dello studio. “Le aziende agricole a basso rendimento hanno bisogno di molta più terra per produrre lo stesso cibo delle aziende agricole ad alto rendimento. Un passaggio diffuso all’allevamento a basso rendimento distruggerebbe e disturberebbe vaste aree di habitat naturali”.
Il rapporto, che ha coinvolto esperti veterinari ed ecologisti delle università di Cambridge e Leeds nel Regno Unito, afferma che “un allontanamento globale dall’allevamento intensivo richiederebbe un’area di terra grande quasi quanto l’India, aumentando inevitabilmente il rischio di ricadute”.
Giuseppe Pulina, presidente di “Carni Sostenibili” e tra i primi 1000 animalisti al mondo, ha spiegato: “Paradossalmente, tenere gli animali confinati dà livelli di sicurezza altissimi”; inoltre, “se la malattia dovesse entrare nell’allevamento, lo si saprebbe immediatamente. Quindi l’allevamento verrebbe subito considerato un focolaio, con il rapido intervento delle autorità sanitarie“.