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La dipendenza da materie prime agricole, un rischio per la zootecnia italiana

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Lo sviluppo del comparto agroalimentare italiano è indissolubilmente legato alla capacità di mantenere un buon livello di competitività e di aumentare la presenza sui mercati internazionali dei nostri prodotti.
Per immaginare un futuro della zootecnia italiana, che consolidi le posizioni sul mercato nazionale e sia proiettato verso l’export internazionale, bisogna avere ben chiara la situazione che il comparto agroalimentare sta vivendo oggi e soprattutto quella legata alla zootecnia e alle produzioni alimentari di origine animale. E questo non per aprire il solito quaderno fitto di lamentele, ma per far comprendere agli operatori economici, all’Amministrazione e al Legislatore nazionali gli esigui spazi di manovra all’interno dei quali questo settore produttivo è costretto ad operare.
Questo per non ripetere le esperienze di altri settori merceologici dell’agro-alimentare che nel tempo hanno purtroppo ceduto quote di produzione all’importazione.

Il ruolo dell’industria mangimistica – L’industria mangimistica rappresenta il primo anello della filiera agroalimentare dei prodotti di origine animale. Ogni anno nel nostro Paese si utilizzano per l’alimentazione animale oltre 21 milioni di tonnellate di materie prime per mangimi. Un quantitativo considerevole di cui solo parte, meno del 50%, viene prodotto in Italia. In questo contesto l’industria mangimistica, con la sua capacità di approvvigionamento, gioca un ruolo fondamentale nel garantire un approvvigionamento costante agli allevamenti nazionali.

La dipendenza delle importazioni primarie – Prima di ogni ulteriore considerazione è utile ricordare qualche numero sulle materie prime impiegate per il fabbisogno del nostro comparto zootecnico: le farine proteiche di origine vegetale, soprattutto soia e girasole, vengono importate per una quota compresa tra l’85% e il 90% del fabbisogno, il grano tenero oltre il 60%, con valori superiori all’80% se si considera quello foraggero; il mais, la cui produzione interna è crollata negli ultimi anni, proviene dall’estero per oltre il 50% e l’orzo per circa il 40%.

Questa situazione determina quattro elementi economico-commerciali essenziali:
– i costi di importazione che gravano sulla bilancia commerciale limitano la competitività e minacciano la credibilità del sistema agroalimentare italiano;
– la continua riduzione della produzione agricola italiana comporta un aumento delle importazioni da altri Paesi, europei ed extraeuropei;
– l’esposizione sempre maggiore del settore agroalimentare italiano agli “umori” del mercato internazionale sia per quanto riguarda la disponibilità delle materie prime sia per quanto riguarda la volatilità dei prezzi delle stesse;
– la sicurezza strategica degli approvvigionamenti (land grabbing e cambiamenti climatici).

I limiti normativi – La carenza produttiva del nostro Paese è oramai strutturale considerata la limitata superficie agricola utilizzabile, in continuo calo, a cui si aggiungono le limitazioni imposte alle tecniche di miglioramento produttivo a causa di una rigida normativa, sia europea che nazionale, che limita fortemente sia la ricerca sia le potenzialità di crescita delle nostre produzioni agricole. Superata la fase di rigetto degli Ogm, che ha visto l’Europa – con rare eccezioni – soccombere di fronte all’aumento delle produttività agricole dei principali produttori mondiali, si rischia ora, alla luce della recente sentenza della Corte di Giustizia europea, di parcheggiare sullo stesso binario morto le New Breeding Technologies (NBT), tecnologia per le quali il mondo scientifico dimostra un entusiasmo riservato solo alle grandi scoperte.

Produzione ed export – Questa concorrenza di situazioni negative – mancanza di innovazione, scarsa competitività, ostacoli normativi – pone ovviamente una questione aperta relativa sia alla sostenibilità della produzione attuale sia, e ancora di più, alle potenzialità di ampliare l’offerta produttiva. E, se si considera l’aumento della popolazione mondiale e la richiesta di proteine animali pregiate da parte di un numero sempre maggiore di consumatori, l’aumento della produzione non può essere ritenuta un’opzione ma è una priorità a cui dare precedenza e con la quale la zootecnia e l’intero agroalimentare italiano è chiamato a confrontarsi.

Questo appare ancora più necessario per consentire la crescita e lo sviluppo sui mercati internazionali delle eccellenze del Made in Italy alimentare sempre più ricercate dalle classi sociali benestanti dei Paesi emergenti e per contrastare il fenomeno dell’Italian sounding, che possiamo “combattere” soltanto aumentando la nostra capacità di offerta sui mercati, garantendo l’approvvigionamento delle materie prime, sia nazionali che di importazione, per coprire il fabbisogno dei nostri allevamenti e della nostra industria di trasformazione.

È pertanto evidente che la questione degli approvvigionamenti rappresenta un tema vitale per un Paese come il nostro, ricco di produzione agroalimentari di eccellenza ma povero di materie prime per realizzarle. Una problematica che deve, perciò, essere affrontata in modo pragmatico, ripensando la politica agricola del nostro Paese, promuovendo la ricerca e l’innovazione per favorire produzioni sostenibili e di qualità sempre maggiore, incrementando i volumi prodotti, consentendo ai nostri agricoltori e alla nostra industria di trasformazione di recuperare competitività e al sistema Paese di aumentare le produzioni per soddisfare non solo le esigenze del mercato interno ma soprattutto per aumentare la nostra capacità di export che è diventato, e sarà sempre più in futuro, un elemento portante della nostra economia.

Foto: Pixabay

Marcello Veronesi – Presidente Assalzoo